E.F
Il mio racconto parla di Lei, ragazza come tante, e di Lui, bello e dannato. La “Lei” di questa storia sono io. Eppure oggi, non mi ci ritrovo nemmeno un po’.
Lei era quella parte di me che si era lasciata sopraffare dal male, dal dolore, dal disprezzo, da quel male oscuro che la trascinava verso il basso senza darle modo di risalire.
Lui invece era il bene e il male allo stesso tempo, quell’amore impossibile già malato in partenza, quel mio bisogno da paladina di giustizia che mi stava portando in quell’abisso, che divenne casa mia.
Incontrarlo fu solo lo specchio di me che non volevo vedere, la malattia che per anni misi a bada era sempre lì, pronta a scattare in una ferita ancora aperta. Ogni sua carezza era una lama sui polsi, una dose di psicofarmaci eccessiva, un logorarmi infinito. Poi pulivo tutto e ricominciavo. Eppure ero io a cercarlo, fra gli sguardi della gente, tra i miei pensieri più oscuri, tra le canzoni che mi aveva insegnato ad amare. La proiezione che ho avuto di lui non rispecchiava la realtà e solo dopo aver toccato il fondo capii che dovevo lavorare su me stessa per poter andare avanti. Da qui ho scoperto la funzione catartica del mio scrivere, perché così facendo ho potuto mettere una distanza fra me e il mio male. Ad oggi per lui non posso provare odio o rancore ma un enorme affetto, che sia amore o bene non posso definirlo. So solo che il fondo che ho toccato è stato il perno su cui ho fatto leva per mettere le ali a quei tagli che provocavano solo dolore.
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